domenica 29 dicembre 2019

C’era una volta il Cile


C’erano un tempo i prati e i boschi della punta meridionale del continente latinoamericano erano abitati da popoli indigeni, in larga parte dal popolo Mapuce. Poi sulle sue coste sbarcò Magellano, il grande navigatore, e sulle suo orme sbarcò Pedro de Valdivia, che con un esercito, ferro e fuoco si prese territori immensi, fondò Santiago, e iniziò una guerra agli abitanti locali che doveva durare tre secoli, la “Guerra di Arauco”. Nel corso di questi trecento anni i conquistadores si presero le terre migliori, vi insediarono piantagioni, pascoli e industrie, costruirono città dove i nuovi proprietari potessero vivere con tutti gli agi. Era il Cile moderno, colto e europeo, cresciuto sulle ossa dei popoli originari. I restanti Mapuce, così come gli altri popoli indigeni del nord, sopravvivevano nelle residue terre, in genere in aree poco accessibili, impervie o marginali. Così sopravvivevano, fino a quando il sanguinario colpo di stato del generale Augusto Pinochet, stuzzicò gli appetiti delle potenti famiglie del paese, due delle quali crearono imprese forestali, Celulosa Arauco, Celulosa Constitución (che poi si fusero in Arauco y Constitución) e la Compañía Manufacturera de Papeles y Cartones (CMPC). I loro funzionari si presentarono nei villaggi indigeni, debitamente accompagnati da esercito e Carabineros, per annunciar loro che da quel momento erano i soli proprietari delle terre indigene. Le terre ancestrali diventarono così piantagioni industriali di eucalipto. L’eucalipto, pianta esotica di origine australiana, ha la proprietà di sostenere la crescita velocissima (ottima per la produzione) succhiando tutta l’acqua dal terreno, rendendo aride le terre circostanti e la residua agricoltura tradizionale, e creando i presupposti ideali per la diffusione di incendi. Le dittature passano, le imprese restano: le due imprese continuano a lucrare sulle terre. Quando le comunità tradizionali tentano di ri-occuparle, i Carabineros si occupano del lavoro sporco: arresti, brutalità, perfino esecuzioni extra-giudiziali. Come quella del giovane leader di una comunità indigena Mapuce Camilo Catrillanca, ucciso un anno fa con un colpo alla nuca.
Dal 2018, secondo dati ufficiali, sono 558 le vittime della violenza rurale. Dal 200 al 2010 si parla di oltre centinaia di vittime. La rivolta contro l’ingiustizia che attanaglia il Cile vede nei Mapuce uno dei protagonisti principali, tanto nelle campagne che nelle città, tanto che la bandiera Mapuce ne è divenuta il simbolo e campeggia giorno e notte sulle statue di Praza Italia, ribattezzata Praza Dignitad.


Diseguaglianze e neo liberismo: la grande rivolta che sta scuotendo il Cile ha un chiaro obiettivo. E’ esplosa per un aumento del prezzo del biglietto della metro di Santiago. Un aumento neppure enorme, ma la goccia di un vaso ormai colmo. Un intero popolo è stremato da cinquant’anni di liberalizzazione assoluta promossa dal dittatore Pinochet e mai attenuata. La salute è privata e costosissima. La pensione è un terno al lotto: la compagnia pensionistica (privata, ovviamente) investe in borsa. Finché la borsa va magari hai la pensione, se va giù, ci dispiace, è andata male. La popolazione cilena è stremata, e le proteste godono di un supporto esteso. I cortei sono accompagnati dai saluti festosi dei clacson: delle auto bloccate dalla manifestazione stessa incitano i manifestanti a continuare. Un decimo di tutta la popolazione è sceso in strada a ottobre, sfidando le autoblindo dei Carabineros. Giustizia per i morti e gli accecati Con l’esplodere del movimento, e con i morti lasciati sulle strade, e le centinaia di occhi spappolati dalle pallottole di gomma sparate deliberatamente al viso, sono emerse altre domande: giustizia prima di tutto, processi trasparenti, riforma della polizia, e soprattutto una nuova costituzione, dato che l’attuale è ancora quella scritta dal dittatore su misura per il suo regime.

E poi la domanda di autonomia, riconoscimento e restituzione delle terra da parte della popolazione indigena Mapuce, terre stappategli dalla dittatura di Pinochet per darle alle grandi cartiere che vi hanno creato l’industria delle piantagioni di legno e della carta. A cinquant’anni dal grande furto di terre ben poco è stato restituito alle comunità tradizionali, anzi le piantagioni continuano a espandersi e i Mapuce che ri-occupano le loro terre imprigionati, bastonati, uccisi. La bandiera Mapuce non a caso è divenuta la bandiera della rivolta. Il libero mercato, questo sovversivo La risposta del presidente Piñera e del governo è stata inviare l’esercito. Dopo le brutalità dei carabineros, dichiarando lo stato di emergenza e il coprifuoco. La repressione è stata additata al ministro dell’interno Andrés Chadwick, uomo del dittatore Pinochet, accusato dalla Commissione speciale del congresso di essere responsabile dell’esecuzione extragiudiziale del leader indigeno Camilo Catrillanca e della militarizzazione delle aree indigene.

 “Siamo in guerra contro un nemico potente e implacabile che non rispetta nulla e nessuno” ha dichiarato Piñera, lasciando intendere che forze oscure puntassero a distruggere il Cile. In guerra sì, ma contro il suo stesso paese: un milione di persone, su una popolazione di 18 milioni, ha sfilato pacificamente a Santiago in ottobre per chiedere una nuova costituzione.

 Per screditare il movimento che chiede le sue dimissioni, il Presidente Piñera lo ha descritto come mera delinquenza organizzata, guidata da oscure forze destabilizzanti che soffiano sul fuoco della rivolta. Ma di organizzazione se ne vede ben poca. Se c’è davvero un grande vecchio di questa rivolta, un’entità che spinge verso la radicalizzazione dello scontro, questa non è la Spectre del Terrore, ma il cuore stesso dello spirito neo-liberale: il libero mercato. Nella zona rossa, quella dove la polizia non entra se non in formazione falange macedone, decine e decine di venditori di strada stendono sull’asfalto un il loro fazzoletto e vendono tutto quello che può trovare mercato: bandiere Mapuce, empanadas vegane, dolci macrobiotici, bandane, fazzoletti da volto con simboli vari, occhiali protettivi (da moto, da nuoto, da bicicletta), bustine di bicarbonato anti-lacrimogeno, adesivi, figurine magnetiche, mascherine antigas, passamontagna e perfino fionde e biglie. Tutto a prezzi popolari, perché anche la concorrenza è spietata. Tutta questa offerta implica la tentazione di utilizzare tanto bendidio. In assenza di gruppi organizzati che guidano la rivolta, il commercio di strada si è trasformato nella spina dorsale logistica delle proteste, ma anche in un diavolo tentatore verso azioni più estreme. Il libero mercato, come Kronos, che divora sé stesso.

Una banda di una trentina di strumenti suona all’impazzata musiche dal ritmo irresistibile, attorno migliaia di persone ballano felici e scatenate. Bandiere del Cile e bandiere Mapuce sventolano allegramente. Poco più in là un’altra banda, e un’altra folla che salta e balla. Più oltre, due one-man-band girano velici in circolo come dervisci con le loro batterie che ritmano all’impazzata. Qualcuno fa partire dei fuochi d’artificio, tra boati di entusiasmo. Sembra una festa popolare ben riuscita, ma qualcosa non torna, c’è come qualcosa di sbagliato: è l’aria. L’aria della piazza non è impestata da colonne di fumo di salsiccia, incensi orientali alito di vinaccia, no, l’avvolge una coltre azzurrina di gas lacrimogeno. Non che le salsicce manchino: in un banchino due ragazzi con occhiali protettivi e bandana, cuociono solertemente würstel – che probabilmente avranno acquistato un aroma tutto particolare. I candelotti lacrimogeni cadono regolarmente ai margini della piazza, ma le migliaia di manifestanti non scappano, piuttosto ballano. Il volto coperto da bandane, fazzoletti, magliette arrotolate a mo’ di burqa, ballano e cantano.

I fazzoletti non sono per coprire il volto, ma per respirare. Li portano gli alternativi, i ragazzi delle periferie, ma anche anziani, professionisti, Li portano le mamme e i bambini. Le signorinelle eleganti – in gonnella e casco. Si vendono ai margini della piazza, c’è quello con l’arcobaleno che rappresenta l’unione dei popoli indigeni. C’è quello verde delle femministe, che tutte normalmente portano al polso come un bracciale (in città vedi signore di tutte le età col fazzoletto verde) ma una volta in piazza si srotola e finisce sul volto. E poi c’è il fazzoletto rosso col simbolo della rivolta: Negro Matapacos: il cane mascotte delle proteste studentesche, poi passato a miglior vita e santificato dai manifestanti. Si narra che abbaiasse con entusiasmo ai cordoni di Carabineros, bandana rossa al collo, ragion per cui Nero è stato ribattezzato l’ammazzasbirri (Matapacos), benché, pare, non gli sia scappato neanche un piccolo morso. Di fatto, è divenuto un culto: le icone di Negro Matapacos sono onnipresenti: magliette, adesivi, magnetici, fazzoletti, poster. Lo vedi sui muri circondato di cherubini o neoclassicistiche ninfe. I fazzoletti non sono tutto. In molti portano occhiali e casco da bicicletta o da moto, per proteggersi dalle pallottole di gomma sparate altezza volto. E poi entra in scena l’improvvisazione. Una ragazzina in divisa scolastica, con kilt, cravattino e le calze bianche, si porta verso la piazza trascinando un pesante scudo fatto con la porta strappata a un vecchio frigorifero. La sua compagna è più fortunata, ha trovato un’antenna parabolica. I carabinieri assaltano la Croce rossa In tanti hanno uno sprizzino con acqua e bicarbonato, che offrono generosamente al prossimo loro.

Lo stand della Croce Rossa cilena offre un liquido rosa dal contenuto indefinito – sì, hanno montato uno stand, lo stesso che per onorare la giornata dei diritti umani, i panzer dei Carabineros penseranno bene di assaltare. I volontari del servizio sanitario auto-organizzato, dotati di casco e scudo crociato (Templari di strada?), offrono agli anziani mascherine di carta spruzzate di liquido bianco. Due ragazze mi spruzzano il fazzoletto con un liquido verdognolo: “non è bicarbonato – spiegano con orgoglio – è infuso di alloro, molto più sano!” Omeopatia e fitoterapia applicate allo scontro di piazza.


Una bimba dondola sull’altalena in un rettangolino di verde al lato dello stradone. Il padre le ha costruito l’altalena appendendo la bicicletta a un albero, e alla bicicletta la corda su cui la bimba siede felice. A pochi metri giunge un’autoblindo dei Carabineros. E’ verde scuro, coperta di grate e piena dei graffi e degli schizzi di vernice bianca sul metallo: un autentico veterano. L’autoblindo si ferma minacciosa, un ragazzo le si avvicina e lancia un sasso, che rimbalza innocuamente sulle grate. Sulla strada un mucchio di immondizia è in fiamme. La bambina scende cautamente dall’altalena, aspetta che la scena si concluda, che l’autoblindo abbia finito di sparare col cannone ad acqua, poi risale sulla corda e riprende a dondolare con allegria. Due ragazze hanno portato i fratellini piccoli, e ora mangiano insieme un ghiacciolo, cosa che richiede pratica, portando il fazzoletto sul naso. Un papà fa ingresso nella piazza col figlio di cinque anni, mano nella mano. Entrambi hanno gli occhiali protettivi, il bimbo ha una mascherina antigas. Un altro bimbo tiene un cartello: mai più violenza in Cile. Sorride orgoglioso. Al collo, la maschera antigas. Ai margini della piazza un bambino di tre anni gioca. Ha un camion di plastica. E un fazzoletto al collo. E’ molto preso dalle manovre del suo camion. La mamma lo segue con la coda dell’occhio e parla amabilmente con un’amica, forse un’altra mamma. Una scena da giardinetti. Ma entrambe hanno il fazzoletto sul viso e gli occhiali protettivi. E dal fumo azzurrino, da un momento all’altro potrebbe sbucare una colonna di autoblindo che sparano all’impazzata su tutto quel che si muove. 


El violador es tu
In Italia lo chiamano flash-mob, ma è molto di più, è poesia, è sociologia, è azione. Il testo infatti, scritto e inscenato da un collettivo femminista di Valparaiso, LasTesis, è il distillato di uno studio sui processi per stupro in Cile.


Malgrado la sua brevità il testo riesce a citare due documenti: il primo è la drammatica testimonianza di una donna violentata “la colpa non è mia (avevo cinque anni) di dove stavo (a scuola), di come vestivo (uniforme scolastica)”. E il secondo documento è un brano dell’inno dei Carabineros (il tuo amante carabinero). Il testo, riprendendo le tesi dell’antropologa argentina Rita Segato, demistifica lo stupratorecome individuo che agisce per il piacere sessuale, e focalizza su un intero sistema che intero genera ruoli, e quindi li difende, proteggendo, sostenendo e incitando alla violenza sessuale e esercitando costantemente la violenza fisica: dallo stupratore che violenta, al giudice che lo assolve mentre colpevolizza le vittime, ai Carabineros, noti per la loro brutalità – ma anche per gli stupri, fino al Presidente, lo stesso che in Cile non ha esitato a dichiarare il coprifuoco per mettere a tacere le proteste e a negare giustizia. Il titolo, uno “stupratoresul tuo cammino”, è la parodia di una pubblicità dei Carabineros, un amico sul tuo cammino. L’istituzione dei Carabineros è impregnata di violenza: in questi mesi di proteste hanno sparato sulla folla facendo numerose vittime, oltre 200 manifestanti hanno perduto un occhio a causa delle pallottole di gomma sparate mirando al volto. Secondo un recente rapporto dell’ONU riporta per gli ultimi tre mesi oltre 4.900 feriti dalle forze di polizia, 113 casi di tortura e 24 casi di violenza sessuale verso donne, uomini e adolescenti da parte delle forze di polizia e dell'esercito. Da mesi il Cile è in sommossa contro la crescente divaricazione sociale e contro la violenza degli apparati statali. A Santiago del Cile ogni giorno i manifestanti, sostenuti dalla popolazione locale, si scontrano con i Carabineros, chiedendo le dimissioni del Presidente Piñera e una nuova costituzione. Le altre città del paese non sono più tranquille. In questa situazione esplosiva si è diffusa l’azione poetica dei LasTesis, sperimentata prima a Valparaiso, e poi replicatasi spontaneamente a Santiago. E così come la bandiera dei Mapuce è diventata il simbolo della rivolta cilena, “El violador es tu” ne è divenuto la colonna sonora, per poi straripare in Argentina, Colombia, Costa Rica, Cuba, Ecuador, El Salvador, Francia, Germania, Guatemala, Messico, Paraguay, Peru, Spagna, Uruguay, Venezuela.


A Città del Messico erano migliaia. Ora se giri la sera, ci sono in strada gruppi di 2-3 ragazze giovani che la replicano sotto casa. Ma l’azione ha passato il confine generazionale: qualche giorno fa è stata cantata-ballata da migliaia di donne anziane a Santiago.


 “Non la consideravamo una canzone di protesta – dice Paula Cometa, di LasTesis – La verità è che la performance è sfuggita di mano, e la cosa bella è che se ne sono appropriati altri”, aggiunge. “Poi ci hanno chiamato da Santiago e abbiamo deciso di andare”. Qualche giorno fa l’ho vista cantare dalle anziane lavoratrici dell’Università di Santiago (bidelle, donne delle pulizie, aiutanti tecniche), visi sfatti dal lavoro, con la timidezza impacciata di chi non ha mai pensato di poter avere le luci della ribalta, ma orgogliose di esserci e di parlare. Il messaggio ha travalicato i confini dei gruppi femministi, e anche quello della protesta studentesca, abbattendo le barriere sociali e di età. Alla seconda prova, tre delle lavoratrici, con orgoglio antico, l’hanno voluta cantare nella lingua del popolo Mapuce. Un messaggio potente allo Stato cileno, governato da una manciata di famiglie potentesi che dall’epoca di Pinochet si spartiscono il potere e i beni del paese.



Il testo:
Il patriarcato è un giudice / che ci giudica per esser nate,E la nostra punizione / È la violenza che non vediÈ il femminicidio / l’impunità per il mio assassino.È la scomparsa. / È lo stupro.E la colpa non è mia di dove stavo, di come vestivoLo stupratore sei stato tu.Lo stupratore sei tu.È le guardie / è i giudici, / è lo stato / è il presidenteLo stato oppressore è un macho stupratoreDormi bene, ragazza innocente, senza preoccuparti del bandito,che sul tuo sogno dolce e sorridente veglia il tuo amante carabinero.(citazione dell’inno dei Carabineiros)Lo stupratore sei tu.Lo stupratore sei tu.

venerdì 13 marzo 2015

Passeggiata in foresta

Il giorno successivo siamo di nuovo in mare per visitare una foresta ancora in piedi, nella Penisola di Kampar. Le orecchie non si sono ancora abituate al frastuono del Pon Pon. Dopo qualche chilometro di mare, la barca imbocca la foce di un fiume e inizia a risalirlo. All’inizio le rive sono costeggiate di mangrovie che si ergono sulle radici aere sopra unl suolo di argilla.
Piccoli animali brulicano in cerca di cibo nel breve intervallo fra le maree, pronti a nascondersi nei loro buchino e a sigillarne l’entrata appena le acque inizieranno a risalire. Risalendo il fine, la generazione inizia a cambiare. Sparisce l’argilla, sostituita dalla torba, gli alberi si fanno più fitti, i rami intersecati l’uno all’altro in un groviglio di foglie, e liane, e radici aeree in cui scorrazzano scimmie, in cui i tucani fanno il nido.
Il fiume è un nastro tortuoso, la barca deve essere periodicamente sollevata per superare i tronchi che ne bloccano la traversata, ogni minuto bisogna abbassare la testa per evitare qualche ramo a pelo d’acqua. Il viaggio prosegue lento, ed è ormai il tramonto quando arriviamo al un lago circondato dalla foresta.
Mentre lo attraversiamo, le sue acque si tingono di grigio-azzurro, e quando arriviamo sull’altra sponda è ormai quasi buio. Inciampando ci incamminiamo nella foresta. Dopo pochi metri l’oscurità totale ci circonda. E’ un buio che si potrebbe tagliare col coltello per quanto è denso. Il nostro buio è fatto di una infinita quantità di luci e luminescenze che trapelano da ogni fessura, il buio della foresta non ha imperfezioni, è totale.
E il buio totale non fa che enfatizzare il frastuono della foresta: centomila grilli, raganelle, cicale, uccelli notturni, e altri animali non identificabili, lanciano i loro richiami uno sopra l’altro, in un rumore che fa vibrare le orecchio, pur duramente provate da ore di Pon Pon. All’improvviso, mentre inciampiamo tra intrichi di radici che non possiamo vedere, la nostra guida dice che è ora di tornare indietro. E’ un po’ un peccato, perché vorremmo restare più a lungo immersi nella foresta, ma la decisione sembra irrevocabile. Solo dopo, quando saremo tornati al villaggio, uscirà fuori che ha udito il ruggito di una tigre. L’avrà sentito davvero? Forse sì, forse l’ha creduto. Sicuramente sa decifrare i suoni della foresta molto meglio di noi. Torniamo lentamente alla barca, che lascia il lago mentre si fa nero, per immettersi nel fiume, che ridiscenderemo al buio. Ogni tanto un tronco di traverso compare nel buio, e ci si abbassa sempre troppo tardi. Un’attivista cinese che è con noi è letteralmente trascinata indietro per due buoni metri da un tronco che le si è piantato sulla fronte. Dalle foglie che ci frustano la faccia piovono animali di ogni genere che iniziano a passeggiare per la barca in cerca di una nuova collocazione. La notte nella foresta è squarciata dal ruggito feroce del motore. anche le nostre orecchie. Al buio la barca supera uno per uno i tornanti del fiume, i tronchi caduti, le secche improvvise. Sono buone tre ore rami che compaiono dal nulla per frustarti la faccia.

La barchetta passa finalmente la foce del fiume che è notte fonda. Come si immette nel mare inizia a sobbalzare pericolosamente. Il mare è mosso, le onde sballottano la barchetta, che lunga e stretta, è fatta per scivolare sulle piatte acque del fiume. A ogni onda sembra che la piccola barca si voglia rovesciare, mentre spruzzi di acqua inondano i suoi occupanti. Ognuno sigilla il sacchetti e buste di plastica il proprio equipaggiamento, e cerca di coprirsi dagli spruzzi con giacche a venti o teli.
La mano che tiene il timone è esperta, e manovra con agilità prendendo le onde frontalmente, per poi riportarsi di traverso tra un’onda e l’altra. La barca cavalca le onde tenendosi costa costa, sfilando davanti alle mangrovie che affondano nell’acqua.Ci vorranno ancora tre ore prima di raggiungere il villaggio di Teluk Lanus. I minuti passano interminabili, uno a uno, segnati dalle oscillazioni e dagli spruzzi d’acqua. La luna è oscurata dalle nuvole e la barchetta è immersa nel nero del mare, interrotto solo dai lampi di una burrasca poco più a nord.

Finalmente arriviamo a riva, ma ci accorgiamo della differenza della marea: il pontile si erge sopra di noi per metri e metri. Cerchiamo di arrampicarci lungo una specie scala. I pioli sono distanti un metro l’uno all’altro, viscidi di alghe e umidità. In cima al pontile il vento soffia e sembra che voglia portarti via. Un’ultima sorpresa aspetta: diversi metri di assi divelte, sotto cui si spalanca il buio e il risucchio del vento. Tra i due lati, un’asse traballante. E’ l’unica strada per arrivare a terra, e anche se il vento ti sbatacchia ci si passa con un salto. Nel villaggio ci aspettano riso e tè. E qualche ora di buon sonno.

giovedì 12 marzo 2015

Ancora foreste pluviali al macero

Il rumore assordante del motore e puzzo di gasolio bruciato, per ore e ore, mentre la foresta sfila su entrambi i lati lentamente, in lontananza.

Una montagna bruna si erge dal mare, altissima, come una piramide azteca, muovendosi minacciosamente berlo la fragile barchetta. Solo quando è vicina si vede sotto quella minacciosa sagoma quella piccola di una potenti pilotina che la traina. La piramide è una chiatta sormontata da una immensa catasta di tronchi abbattuti sull’isola e diretti al porto di smistamento della PT RAPP, una sussidiaria del colosso cartario APRIL (Asia Pacific Resources Limited).

Seguiamo le piramidi di tronchi in senso inverso, per vedere da dove vengono. Vengono dall’isola di Pulau Padang, situata dietro un braccio di mare a est della penisola di Kampar, a Sumatra. un’isola fatta interamente di torba. Non c’è un sasso, non c’è sabbia, solo torba, il frutto del paziente lavoro di millenni delle foreste palustri di mangrovie, che hanno lasciato cadere foglie rami nell’acqua. Nell’acqua invece che decomporsi, foglie, rami e tronchi si sono lentamente carbonizzati creando uno strato spesso metri e metri di torba.

Ma quello che troviamo ora è qualcosa di diverso dalla foresta palustre. E’ un mare di torba secca e riarsa: una piantagione che si espande nella foresta tagliando linee dritte lunghe chilometri. Ai piedi degli ultimi alberi rimasti, proprio sulla linea tagliata dalle ruspe, alberi, liane, piccole piante carnivore, il canto dei pochi uccelli che non sono fuggiti lontano. Un passo più i là ed è un deserto di cenere, torba essiccata, ceppi carbonizzati e rami che spuntano macabramente dal suolo.

Per generazioni, gli abitanti del villaggio di Lukit hanno vissuto della foresta. I piccoli orti gli fornivano verdure, ma il loro sostentamento veniva dalla raccolta del sago, una specie di farina prodotta da una piccola palma che cresce nella foresta. Col sago si nutrivano e potevano acquistare i beni di prima necessità vendendo le eccedenze.
Poi sono arrivate le ruspe. Un terzo dell’intera isola, compresi villaggi, orti e foreste, è stato dao in concessione alla RAPP. La compagnia ha portato ruspe a scavarci, ha raso al suolo la foresta, portando via alberi centenari per triturarli e farne carta. Solo a questo punto ha iniziato a stabilire la piantagione di acacia: ha scavato canali per svuotare la torba dall’acqua che l’ha preservata per millenni, e infine gli incendi hanno bruciato la torba rendendola coltivabile. La torba infatti è acida, non ha nutrienti (è buona per il semenzai, ma non per crescere piante). Le fiamme inoltre eliminano insetti, resti di tronchi. Ma le fiamme sul suolo di torba, non si controllano. La brace espande nel sottosuolo marciando per chilometri senza essere individuata, e quando sale in superficie perché trova abbastanza legno da bruciare, è troppo tardi per fermarla. Per questo bruciare il suolo di torba è severamente vietato, ma dei provvidenziali incidenti a opera di ignoti provvedono sempre a terminare il lavoro. Nel fuoco assieme alla foresta, bruciano le vite, la sussistenza e il futuro della gente dei villaggi.

Quello che la gente non sa è che le piantagioni della APRIL rischiano di magiarsi letteralmente la loro isola, e farla scomparire per sempre. Infatti, come a dimostrato uno studio dell’Università di Helsinki, studiando proprio le dinamiche del suole delle piantagioni di acacia della APRIL, anche dopo la deforestazione, nella gestione corrente della piantagione, la torba asciugatasi continua a ossidarsi e a liberare carbonio in quantità massicce: 80 tonnellate per ettaro ogni anno. Tutto questo carbonio finisce in atmosfera creando il famoso effetto serra, che sta surriscaldando il pianeta - ed è per questo che l’Indonesia, paese relativamente poco industrializzato - è divenuto il terzo elettore globale di carbonio. Ma tutto il carbonio che va in atmosfera se ne va dal terreno, e il terreno si abbassa ogni anno di qualche centimetro. Anno dopo anno, l’isola si inabissa, e se il processo non viene fermato immediatamente bagnando di nuovo la torba e ripiantando alberi palustri (non certo acacia) l’isola è destinata a scomparire come una nuova Atlantide, sacrificata insieme ai suoi abitanti, umani, animali e vegetali, alla produzione di carta che in gran parte finirà nel cestino il giorno stesso del suo utilizzo.

Col cuore singola riprendiamo il viaggio verso il villaggio che ci ospita, sull’altro lato del braccio di mare. La piccola barchetta scivola sull’acqua piatta e limacciosa, il caldo impasta l’aria. Ma in cielo la luna gioca a nascondino con le nuvole. All’improvviso il motore smette il suo fracasso infernale e lascia il passo al pigro scialacquio della barca. E’ un istanti di magia, in cui la luna, attraversando fasci sottili di nubi, dona loro un’inattesa tridimensionalità, fasciata da riflessi argentei. Poi, con pochi rauchi colpi di tosse, la barca tenta invano di ripartire. Il motore giace senza vita.
L’orizzonte intorno alla barca è nero.

Aspettiamo, e aspettiamo ancora, al buio, alla deriva. Attorno a noi, montagne di legname e ombre nere di altri traghetti continuano a sfilare silenziose, in silenzio preghiamo che non ci vengano addosso: senza luci non ci possono vedere, e senza motore non possiamo evitarli. A qualcosa però i telefoni cellulari devono pur servire: e così dopo qualche ora di attesa alla deriva, una piccola barca a motore viene a trainarci. Ma sovraccarica dal doppio peso, dopo qualche chilometro anche la barca di traino si ferma, il motore si è inceppato. Proprio davanti al porto di smistamento della PT RAPP. Le nostre due piccole barche vagano alla deriva, spinte solo dalla forza d’inerzia, fino quasi a schiantarsi sulle navi del legname della RAPP. Il personale della compagnia accorre allarmato, gridando cose incomprensibili, sicuramente fra loro ci sono gli uomini della security, tristemente noti per la loro brutalità. Riusciamo in tempo a spingere via le nostre barche fuori dal porto, a forza di braccia, e scompariamo nel buio. Un esperto meccanico riesce a riparare il motore e in breve sfiliamo via, lenti ma al sicuro.

giovedì 27 settembre 2012

Le multinazionali fermeranno la deforestazione?

Per anni le imprese che lucrano sul saccheggio delle foreste - dalle cartiere ai commercianti di legname, dai grandi allevatori alle lobby agricole - hanno cercato di vendere la tesi secondo cui la deforestazione è causata dai contadini poveri che dissodano appezzamenti di terra strappandoli alla foresta, per dare del pane (o del riso) ai propri figli. Insomma, la deforestazione sarebbe causata ai poveri, per non morire di fame, un mantra ancora ripetuto da centri studi e media, spesso finanziati dalle imprese che praticano la deforestazione. Nel frattempo, molte di queste imprese, non si sono fatte scrupoli di scacciare quei piccoli decontamini dalle loro terre, per fare spazio alla propria espansione: dall'America Latina al Sud-est asiatico, all'Africa, alla Nuova Guinea, la deforestazione avanzava scacciando popoli indigeni e piccoli contadini. Ma poi su questi è ricaduta la colpa della deforestazione. Nel frattempo è sempre più difficile sostenere una tesi del genere, semplicemente i numeri non reggono. La globalizzazione ha spinto milioni di contadini verso le grandi città, mentre le campagne - e le foreste - sono sempre più massicciamente gestite da grandi gruppi industriali organizzati su vasta scala. I governi, per non perdere preziose opportunità di sviluppo, si affrettano a finanziare grandi progetti infrastrutturali come strade, dighe e centrali elettriche, che aprono nuove aree di foreste incontaminate. Secondo uno studio del WWF, quasi la metà di tutta la produzione mondiale, secondo uno studio del WWF, è gestita da appena un centinaio di imprese. E la gran parte delle foreste viene abbattuta su spinta delle grandi multinazionali, che controllano quote sempre più ampie del mercato. Il WWF ne trae una confusione ottimista: basta cambiare l'attitudine di queste cento imprese per fermare o rallentare la deforestazione. I grandi gruppi, come McDonalds, Mattel Inc, Nestlé, Monsanto ecc., sono più esposti alle campagne ambientaliste, e in effetti, nel recente passato hanno dovuto modificare le proprie pratiche per proteggere il proprio marchio. Purtroppo, non è così semplice. Innanzitutto, non sempre è facile distinguere tra reali progressi e raffinate tecniche di comunicazione, che fanno passare per pratiche sostenibili quello che in realtà è business as usual. Dopo essersi scottati le mani, i grandi gruppi hanno fortemente sviluppato la comunicazione ambientale, spesso sconfinando massicciamente nel "green-washing" - ossia presentando qualità ambientali dei propri prodotti o della stessa azienda, che non corrispondo alla realtà dei fatti. La realtà è che i grandi gruppi industriali dispongono di potenti risorse tecnologiche, accresciute proprio dalla concentrazione di ricchezze e capitali, e sono in grado di accelerare il processo di deforestazione: spesso la tentazione di utilizzarli - con immenso profitto - è semplicemente troppo forte. Inoltre possono facilmente influenzare i governi nazionali - talvolta con un bilancio di gran lunga inferiore al loro - corrompendo in funzionari o esercitando pressioni politiche, per ottenere vaste connessioni, per evitare ammende e perfino per legalizzare le pratiche illegali. Un altro effetto della globalizzazione. C'è un terzo effetto della globalizzazione che rischia ora di rendere sempre più difficile il lavoro di gruppi di pressione come il WWF. Per influenzare le grandi multinazionali, questi hanno fatto appello ai consumatori, invitandoli a usare il diritto di scelta, e -attraverso questo- a esercitare una pressione di mercato sui gruppi industriali che più danneggiano l'ambiente - evitando i loro prodotti. Ma lo spostamento di sostanziali fasce di mercato di consumo verso i paesi emergenti, rende questa pratica sempre meno efficace. I mercati emergenti hanno forme diverse di sensibilità ambientale (per esempio, il mercato si concentra nelle città, dove è più forte la sensibilità verso l'inquinamento urbano che non verso la deforestazione in remote aree rurali). Le multinazionali hanno saputo rapidamente comprendere e sfruttare a loro vantaggio, ed è per questo che per esempio le associazioni ambientaliste faticano ora a influenzare le pratiche del colosso cartario Asia Pulp & Paper (APP), per il quale i mercati occidentali sono relativamente marginali, mentre gli acquirenti in Cina, Sud-est asiatico e Medio oriente non sono troppo sensibili alla tematica dalla deforestazione in Indonesia.

domenica 3 luglio 2011

Conglomerati cinesi e fondamentalisti americani


L’elicottero sorvola il villaggio, e all’improvviso si scatena l’inferno. Una pioggia di fuoco quella che cade sulle case, tra la gente che fugge. Il liquido infiammabile è sparso da un elicottero della polizia, dopo che nel villaggio ha fatto irruzione una composita truppa d’assalto composta da agenti di polizia, security privata e bande criminali.
Alla fine dell’incursione sul villaggio indonesiano di Suluk Bongkal, 400 capanne sono state carbonizzate, 70 abitanti del villaggio arrestati, e due bambini sono trovati morti, uno ucciso dalle fiamme, l’altro annegato in una pozza mentre fuggiva nella foresta. Gli arrestati saranno poi trattenuti per mesi senza processo.
I contadini del villaggio non volevano cedere le loro terre al colosso cartario che aveva ottenuto la concessione in una fetta di foresta già abitata. Il colosso cartario sino-indonesiano Asia Pulp & Paper (APP) ha un pressante bisogno di nuovi terreni da ripulire e mettere a piantagione, e il governo rilascia loro nuove concessioni senza curarsi dei diritti di indigeni e comunità locali e quando questi non accettano di abbandonare le proprie case, si passa alle maniere spicce.

L’impresa PT Arara Abadi aveva ottenuto la concessione alcuni anni prima, ma assieme ad altre imprese del gruppo APP, era finita nel mirino di investigazioni sul taglio illegale, che avevano portato al sequestro di un milione di metri cubi di legname. Secondo gli investigatori le concessioni erano state rilasciate in modo irregolare.
Probabilmente gli abitanti del villaggio di Suluk Bongkal avevano festeggiato, ma contro la polizia di Riau è intervenuto l’allora ministro delle foreste Malam Kaban, e dopo mesi di braccio di ferro istituzionale, il capo della polizia di Riau, brigadiere Suciptadi, era stato rimosso. Nel giro di pochi giorni, ecco la polizia locale schierata assieme alle guardie private della Arara Abadi nel distruggere il villaggio.
Suluk Bongkal non un’eccezione. L’espansione delle piantagioni minaccia, inoltre, direttamente la sussistenza e i diritti delle comunità forestali e dei popoli indigeni dell'area rischiando di aggravare le loro già difficili condizioni di vita, e conflitti similari sono diffusi trai Jambi e Riau. Le violazioni dei diritti umani si estendono anche ai giornalisti: nel luglio 2009 la security aziendale a di un’altra impresa del gruppo APP, la PT Lontar Papirup Pulp and Papers, ha sequestrato due reporter della televisione France 24, che riprendevano camion di tronchi.

"Con il vostro appoggio stiamo contribuendo a creare centinaia di migliaia di posti di lavoro in Indonesia" scrive la APP ai propri clienti preoccupati del fatto che iniziano a circolare sempre più informazioni sulle pratiche della APP.
La APP sostiene di lavorare per il benessere delle comunità delle aree in cui opera, lasciando intendere che il sacrificio delle foreste sia necessario allo sviluppo di un paese povero. Ma l’espansione delle piantagioni, quando non avviene ai danni della foresta pluviale, distrugge più posti di lavoro di quanti ne crei (le piantagioni industriali hanno un'intensità di lavoro molto più bassa dell'agricoltura tradizionale indonesiana) e causa grandi conflitti, spesso scacciando le comunità contadine dalle loro terre, lasciandole senza lavoro, casa e mezzi di sussistenza. Le foreste indonesiane danno da vivere a 30 milioni di persone, tra cui 300 gruppi indigeni, e la loro distruzione lascia questa gente senza casa, senza fonti di sussistenza, senza il loro ambiente e la loro cultura. La loro vita, sostenuta dalla foresta per migliaia di anni, si trasforma in una povertà senza radici né mezzi di sussistenza dignitosi. Secondo la FAO, in tutto il mondo le foreste danno da vivere 1,2 miliardi di persone, che vivono in sistemi agro-forestali, e ovunque, la deforestazione crea miseria. Non stupisce che i conflitti tra le sussidiarie della APP e le comunità contadine che vivono nelle nuove aree assegnate in piantagione, siano spesso aspri. Secondo un rapporto pubblicato da Human Rights Watch redatto sulla base dei dati forniti dalla Commissione per lo Sradicamento della Corruzione (KPK) voluta dallo stesso Presidente della Repubblica, il settore forestale indonesiano avrebbe sottratto circa 2 miliardi di dollari, tra tasse evase, sussidi "aggiustati" e prelievo di tronchi senza le necessarie autorizzazioni. La stessa cifra, secondo i calcoli della Banca Mondiale, sarebbe sufficiente ad assicurare l'assistenza sanitaria a 100 milioni di indigenti per almeno due anni.

Eppure, dall'altra parte dell'oceano, le accuse di imperialismo ambientaliste stanno Una associazione chiamata "Consumers Alliance for Global Prosperity" si è specalizzata in campagne contro gli ambientalisti, la cui colpa principale è proteggere le foreste e le specie minacciate "in questo modo condannano milioni di persone nei mondo in via di sviluppo ad ignobile povertà. Guarda caso, dietro la Consumers Alliance for Global Prosperity e le violente campagne anti-ambientaliste, si nascondono i finanziatori cinesi della APP, che secondo un'inchiesta del New York Times, sono riusciti a coinvolgere i Tea Party, l'ala più oltranzista del Partito Repubblicano, nel sostegno alla causa della APP: il diritto di importare cellulosa e carta dalla Cina e dall'Indonesia senza curarsi di inezie come gli impatti ambientali. Una bizzarra alleanza, ma il denaro fa miracoli. E il denaro alla APP non manca. Mentre assieme ai Tea Party, accusa gli ambientalisti di condannare alla povertà 100 milioni di indonesiani, l'impresa, controllata da uno degli uomini più ricchi del paese, continua sottrarre terreni ai contadini poveri. Sarà difficile convincere i contadini di Suluk Bongkal che le loro case e i loro campi sono stati dati alle fiamme per promuovere sviluppo e benessere.

venerdì 3 settembre 2010

C'è posta per te


Il postino non suona sempre due volte, e a volte vorresti non suonasse mai. Come quando, fra pubblicità indesiderate e bollette ancor più indesiderate, spunta una denuncia con una richiesta di risarcimento di 500.000 euro. E allora la cosa si fa seria.

Qualche mese fa, l'associazione ambientalista Terra! ha fatto luce su un’aggressiva campagna di espansione nel mercato italiano da parte di una delle imprese più distruttive del mondo, la Asia Pulp & Paper (APP). Nel giro di pochi mesi, questa impresa - che da sola a spianato oltre un milione di ettari di foreste pluviali, un'area vasta quanto l'Abruzzo, per farne piantagioni di acacia - ha aperto uffici in Italia, Spagna, Regno Unito, Austria e Germania. Da questi uffici organizza un esercito di venditori sguinzagliati a proporre nuove carte a prezzi vantaggiosi. E così l'Italia è divenuta il primo importatore europeo di prodotti cartari dall’Indonesia, superando le 77.000 tonnellate. Nel 2009, editori, tipografie e rivenditori di carta hanno acquistato oltre 40.000 tonnellate di carta soltanto dalle tre cartiere indonesiane del gruppo APP: Tjiwi Kimia, Pindo Deli e Indah Kiat. Questo aumento delle vendite spinge il colosso cartario a produrre di più e ne alimenta la cronica fame di fibre che lo spinge a convertire sempre nuove foreste in piantagioni di acacia. Per questo Terra!, assieme a 40 associazioni ambientaliste europee, ha chiesto alle imprese del settore di interrompere ogni relazione commerciale con il colosso cartario sino-indonesiano.

Terra! sottolineava che acquistando prodotti della APP, si favorisce l'espansione sul mercato italiano dei suoi prodotti, che rischiano di mettere fuori gioco la produzione cartaria nazionale proprio in un momento di crisi, e al tempo stesso si incoraggia la APP ad espandere ulteriormente le proprie pratiche distruttive in Indonesia, ai danni delle residue foreste pluviali e delle comunità che vi abitano
Imprese come Mondadori Printing, De Agostini, Gucci, Versace, Ferragamo, Burgo, Fedrigoni, Kimberly-Clark, Nestle, Kraft, Fuji Xerox, Unilever, Stamples, Office Depot, Corporate Express, Metro, hanno compreso come le pratiche della APP siano distruttive e incompatibili con i propri valori aziendali e hanno evitato o interrotto l'acquisto di prodotti da APP.
Chi la campana di Terra! proprio non ha voluto ascoltarla sono le Cartiere Paolo Pigna invece non hanno ritenuto importante dare una risposta e quando Terra! ha divulgato il legame commerciale tra la APP e Cartiere Pigna, quest’ultima si è affrettata a dichiarare alla stampa che si trattava di una menzogna: "Cartiere Pigna non tiene rapporti commerciali con la società indonesiana Asian Pulp and Paper e non si approvvigiona di prodotti derivanti dalle foreste indonesiane".

La Pigna però non si è limitata a diramare comunicati: ha citato Terra! per danni. L’associazione ambientalista è stata così condannata a pagare 20.000 euro più le spese, per aver rivelato un fatto vero. Infatti, in sede processuale, Terra! ha fornito gli estremi di diverse fatture che provano gli scambi commerciali tra Cartiere Pigna e la APP, per cui Pigna ha dovuto ammettere di aver acquistato carta dalla APP. Ma non basta: Terra! ha fatto analizzare dei quaderni Pigna Monocromo, uno dei prodotti più venduti dall’impresa, e sono risultati pieni di fibre provenienti da foreste pluviali: tra il 62 e il 74% di acacia (le cui piantagioni vengno messe su abbattendo le foreste pluviali e torbiere) e tra il 19% e il 36% di latifoglie miste tropicali (MTH), ossia foresta pluviale ridotta in trucioli.

Le prove evidenti del legame di alcuni prodotti della Pigna con la deforestazione non ha impedito a questa impresa di tirare dritto e ottenere una condanna per Terra! "Certo è che una associazione ambientalista ci penserà due volte prima di esporre un crimine ambientale" sostengono preoccupati gli attivisti di Terra!. Insomma, deforestare va bene, distruggere il clima globale anche, denunciare quanto accade invece no.

Terra! ovviamente è riscorsa in appello, ma nel frattempo ha trovato la solidarietà di oltre cinquanta associazioni: "la legge dovrebbe perseguire le imprese responsabili di crimini ambientali contro le forese pluviali dell'Indonesia e contro il clima, invece di condannare chi ha messo in luce il problema - recita il comunicato - E' una palese violazione del diritto di parola, e un tentativo di impedire le campagne ambientali". Tra i firmatari del comunicato, Greenpeace, Legambiente, Friends of the Earth, Rainforest Action Network e numerosi altri.
"Sosteniamo Terra! nella sua battaglia contro un verdetto ingiusto - prosegue il comunicato - Consideraiamo l'attacco di Pigna a Terra cone un attacco a ciascuno di noi, che lavoriamo per un ambiente più sostenibile".

Un recente rapporto di Reporter Senza Frontiere, ha messo in guardia sulla crescita delle intimidazioni verso chi rivela crimini ambientali: "Quando si rivelano crimini commessi da imprese e governi locali, iniziano i guai" . Ora, fanno notare gli attivisti di Terra! dall'Uzbekistan all'Indonesia, le intimidazioni sono arrivate all'Italia. Ora Terra! dovrà pagare alla Pigna il danno causato dalle proprie rivelazioni. Ma chi pagherà per i danni al clima globale?

lunedì 29 marzo 2010

L’uomo della foresta


La fragile struttura di metallo oscilla a ogni gradino. La scala pioli sale lungo la torre per sessanta metri. Dal suolo le carnivore colorate e le piccole palme di sago si fanno sempre più piccole, fino a profondare nel buio, man mano che gradino dopo gradino la luce inizia a penetrare fra le fronde degli alberi e compaiono i rimi pezzi di cielo. In cima alla torre vigilano silenziosi i macchinari per le rilevazioni atmosferiche e lo studio dei gas rilasciati dalla foresta.
Un rumore secco vibra nell’aria, come un tronco vuoto percosso. Poi un muoversi di fronde. Accelero la salita, le mani sudate scivolano sul metallo umido, ma arrivo in temo all’appuntamento: due alberi più in la si affacciano due oranghi, una madre con un piccolo. Siamo alla stessa altezza, faccia a faccia. Loro su un ramo di ditperocarpa, io sul mio albero artificiale di metallo. Mi guardano con una curiosità celata da apparente disinteresse: che ci fa questo estraneo nel loro territorio? È uno sguardo indulgente, da vecchio saggio. Che ha visto tante storie, tante intemperanze, e ora guarda alla vita degli umani con pietoso distacco.
Oscillano tra i rami senza fretta, poi, realizzato che non succede niente, oscillano mollemente sulle lunghe braccia. Smetto di sperticarmi verso il vuoto e riprendo a salire mentre l’oscillare dei rami si allontana lentamente.

Orango in realtà significa uomo. Il nome vero è orang-utan, che in malay significa uomo della foresta. E per millenni questi uomini delle foreste hanno abitato pacificamente le loro foreste. Ma poi gli uomini delle città hanno cominciato ad abbattere le loro foreste, e i pacifici oranghi si sono ritirati, e poi ritirati ancora man mano le motoseghe avanzavano. Ora stanno per estinguersi, come tutti gli altri parenti dell’uomo: gorilla, scimpanzè, bonobo. Gli scalini scorrono uno dopo l’altro. Quanti ne restano ancora? Quanti anni restano agli oranghi prima di sparire per sempre? Quando arrivo in cima alla torre, la vegetazione è completamente diversa. Al nero macchiato di verde scuro e marrone si sostituisce un tappeto di fronde verde chiaro, quasi argentato, appena ingrigito dall’umidità verso l’orizzonte. Il sole picchia diretto e brucia sulla pelle quassù. Da sopra vedo i due oranghi allontanarsi lentamente, come due ragnetti rossi, allungandosi con le braccia, di ramo in ramo.
Verso ovest il mare di foresta si stende all’infinito, fino a sciogliersi nel cielo. Ma a est dopo qualche chilometro la foresta s’interrompe brutalmente lasciando posto a un deserto costellato di tronchi secchi. È l’inarrestabile avanzata della civiltà.

giovedì 4 febbraio 2010

Vi ricordate le lucciole?


L’ora è arrivata. Dal tappeto di fronde, venti metri più in basso, si leva un coro di suoni, sirene e ululati, come se qualcuno stesse cercando di rubare contemporaneamente tutte le auto parcheggiate di un’intera città.
È il canto del tramonto, che in realtà precede il tramonto di alcune ore. Sceso alla base della torre mi trovo immerso nel buio, e solo dopo alcuni minuti gli occhi si riabituano completamente alla penombra. Arrivato al campo la penombra si è fatta buio pesto. Un buio vivo, abitato da suini, scricchiolii, cicaleggi, fruscii. Impastato di odori umidi, caldi, viscosi. Un buio interrotto e reso più denso dal fitto svolazzare delle lucciole. Le lucciole… È un tuffo nell’infanzia, quando volavano a centinaia nell’aria fredda dietro casa, in Trentino. Cercavo di acchiapparle per fare le lanterne degli gnomi. Ricordo la delusione di questa magica luce delle fate, che una volta portata alla luce si rivelava un banale coleotterino dal colore insipido. Era difficile capire che le magie non possono essere portate in casa, che devono restare nel loro mondo. Ma erano sempre una magia. Ora non ci sono più, come le magie dell’infanzia, come gli gnomi, come le favole: una cosa del passato. Ma a differenza delle favole, non le ha fatte svanire la scuola, le hanno eliminate in pochi decenni i pesticidi dei nostri campi.
Guardo le piccole luci che oscillano tremolando nell’aria e mi domando decenni ci vorranno per far piazza pulita di questa foresta, di questo buio così intenso e vivo, delle sue luci tremolanti, dei suoi suoni. E un giorno anche questa notte non sarà che la dolce bugia di un racconto fatato.

mercoledì 16 dicembre 2009

In nome della Regina

- Un lussureggiante ciuffo di palme si erge, offuscato appena dall'aria umida. Gocce di condensa si raggrumano sul terriccio. Penso alle piantagioni che in Indonesia divorano la foresta, liberando tonnellate di carbonio in atmosfera man mano che la torba viene drenata e si ossida. Sono lontane quelle piantagioni, ma qui vicino si decide il futuro di quelle foreste. Dietro dietro le palme , il bianco azzurrino di un vetro incrostato di neve: è qui, a Copenaghen, che si riunisce il vertice mondiale del clima.

Il palmizio non è che un'aiola della piscina comunale, temporaneamente adibita a centro rionioni del Clima Forum, il forum della gente e della società civile.

Associazioni ambientaliste, gruppi indigeni, fondazioni e centri culturali si riuniscono per parlare di clima con de cine di dibattiti e workshop in contemporanea. Un modo per coinvolgerli - o meglio per tenerli a distanza dal vertice vero e proprio, che si tiene al Bella Center, a diversi chilometri di distanza, protetto da numerose recinzioni. Un segnale in questo senso viene proprio dal Bella Center: migliaia di rappresentanti di asso citazioni già accreditate non vengono fatti entrare. Lo spazio delle strutture risulta essere inadeguato a un vertice ONU, a cui ormai da anni partecipano numerosi rappresentanti delle associazioni della società civile. Di 30.000 accreditati ne entrano solo 900, e per il giorno successivo si annuncia un numero chiuso di 90. Intanto delegati, parlamentari e perfino ministri gelano facendo la fila per cinque, otto, nove ore. Invano..

Gli esclusi si ritrovano al Clima Forum: "Abbiamo il diritto di entrare" sostengono. E lamentano la mancanza di trasparenza del vertice, dove i delegati fanno la notte a stilare su una bozza, mentre la mattina dopo la Presidenza presenta un documento completamente diverso, buttato giù nel corso di una trattativa privata. È così che si decide la manifestazione del giorno successivo si recherà al Balla Center e tenterà di entrare nel parcheggio, dove organizzerà un incontro con i delegati che vorranno uscire. Ma anche il parcheggio è off-limits, e la polizia ha già mostrato la mano pesante. Pochi giorni prima, la manifestazione è stata caricata per la presenza di un non ben specificato gruppo "sospetto". De cine di pacifici manifestanti sono stati costretti a restare cinque ore sdraiati per terra nel gelo, con le mani legate dietro la schiena. Successivamente la polizia ha assaltato con i lacrimogeni la conferenza tenuta da Naomi Klein al Cristiania. Agenti di polizia si sono fatto irruzione anche nella sauna annessa al centro, esigendo i documenti da anziani signori completamente nudi.
Anche il gruppo di manifestanti in bicicletta ha visto un'irruzione delle forze dell'ordine, che hanno sequestrato pericolosi strumenti dotati di ruote e pedali. La polizia sembra avere liste dettagliate degli organizzatori delle diverse associazioni, che arresta preventivamente, senza che abbiano commesso alcun reato. Il governo ha fatto arrivare delle gabbie modello Guantanamo, per quelli che chiama i "prigionieri del clima".

E il clima sembra davvero prigioniero di un vertice strozzato da interessi e veti incrociati. Intanto il messaggio è chiaro: nessuna voce diversa deve disturbare un manovratore troppo impegnato a distruggersi da solo.

Le palme sono rimaste al Clima Forum. È ancora buio alla stazione metro di Tåmby, il buio pastoso dell'inverno nordico, anche se sono le otto passate. Attorno al cono di luce di un fanale danza un mulinello di fiocchi di neve. Si imbiancano i cappucci, i fazzoletti, i colorati cappelli indigeni, sui volti scuri di gente che non ha mai visto la neve in vita sua, che non sapeva cos'è il freddo.

Frotte di giornalisti e fotografi sciamano attorno ai manifestanti come mosche al miele. chi si sofferma sui dread infiocchettati di un alto scandinavo, chi si butta a pesce su un pagliaccio malandato. Basta una bicicletta dalla forma originale a far guadagnare un minuto di celebrità. Guardo con un certo disgusto a quel carosello di interviste e scatti, ma chi è senza peccato s cagli la prima pietra. E del resto è così che funziona: se il folklore è l'unico mezzo per esistere, ben venga il folklore.

La manifestazione parte ordinatamente e si avvia verso un nulla silenzioso dei fiocchi di neve. Un cordone di manifestanti stringe i lati del corteo per evitare l'entrata o l'uscita dei soliti gruppetti fuori controllo, si tratti di manifestanti o di polizia in borghese. Il sistema funziona: non si vedono i fantomatici black blocker, non vola un sasso, nessun danno, nessuna violenza.
Ma all'arrivo c'è una brutta sorpresa: la strada è interrotta da un nuovo recinto di muro e ferro. Pochi mesi fa tutti i media del mondo commemoravano la caduta del muro di Berlino. Nessuno nota l'erezione di questo nuovo muro, fra tanti altri, che divide tra governanti e governati. E davanti al muro un recinto di giganti in armatura. chissà se li selezionano in base all'altezza come i corazzieri, o se si tratta di un esperimento genetico di razza superiore. Magari hanno solo le scarpe col tacco nascosto, come il premier italiano. Fatto sta che ci guardano dall'alto, somministrando manganellate e spray urticante. La manifestazione era autorizzata fino al Bella Center, ma a quanto pare non potrà arrivare fino all'entrata. I manifestanti sono disorientati. Provano a stringersi contro quella rete di ferro, ma vengono respinti con poca grazia. I fotografi entrano in visibilio. Meno male.

Dal Bella center gruppi di delegati provano a uscire per unirsi alla manifestazione, ma vengono anche loro respinti con violenza. Volano le prime bastonate, poi la polizia scatena i cani, che si avventano sui delegati. Sul corteo si stringe una morsa di blindati e polizia, che avanza progressivamente.
Dall'alto di un blindato un altoparlante recita in inglese: "In nome della Regina, dichiariamo questa manifestazione illegale. Lasciate questo luogo immediatamente e in modo pacifi co o sarete arrestati. In nome della Regina..."
Mi domando se è in nome della Regina che il summit di Copenaghen sta sprofondando nel nulla, se è in nome della Regina che il pianeta si avvierà a friggere come una patatina.


In nome della Regina. I blindati avanzano sui manifestanti come un rullo compressore. Alcuni ragazzi legano una fila di biciclette, sperando di fermarli, almeno simbolicamente. L'ammasso di ferri contorti viene trascinato via.
Mi volto e vedo che un blindato sta avanzando sul lato, tagliando in due i manifestanti. Diamine: stanno circondando migliaia di persone, chiudendo la strada sui due lati. Ma che strategia è questa? Imbottigliare migliaia di persone senza lasciare loro una via di uscita, significa tenerle compatte e spaventate, significa istigare reazioni violente. che senso ha? L'aria sa di spray urticante. In lontananza sento il ringhiare dei cani. Ma chi diavolo è questa perfida Regina?

Il blindato avanza verso l'ultimo punto di strada libera. È una follia, bisogna impedirlo. Vorrei chiamare qualcuno, e provo anche a lanciare qual che grido, ma sono tutti occupati a difendere il camion dei manifestanti, che è stato espugnato dai gendarmi. c'è solo una cosa da fare: allargo le braccia e mi metto davanti al blindato. chissà, forse è proprio quello che lanciava proclami in nome della Regina.

Il blindato spinge, ma mi aggrappo alla grata, e quello si ferma. È stato facile, pure troppo. Penso che se uno o due di questi giganti escono, mi portano via in un secondo e manco se ne accorge nessuno. Per fortuna restano dentro il blindato, forse lo ritengono più sicuro, forse anche loro stanno chiamando i loro colleghi. come io vorrei altri manifestanti venire al mio misero blindato. Ma nessuno di loro sembra notarmi. Provo a chiamare, ma c'e' troppa confusione, nessuno mi sente, nessuno mi vede. Anzi, no, mi vedono i fotografi. In un attimo me ne trovo attorno una decina. La cosa mi imbarazza, vorrei digli di chiamare qualcuno invece che farmi fare la figura dell'esibizionista, ma so che non avrebbe senso. Appena si distraggono un attimo, sguscio via senza dare nell'occhio, magari riesco pure a chiamare un po' di gente. Ma come mi sposto il blindato riprende subito ad avanzare. Guardo il blindato, e penso: torno. Guardo i fotografi, e penso: no, manco morto, ora tocca a qualcun'altro. Però quel blindato avanza e avanza ancora. Ho perso. Rialzo le braccia e mi rimetto là davanti. I fotografi tornano come pesciolini attorno al mangime. Ora sono tutti li, inginocchiati di fronte, mentre me ne sto aggrappato al blindato, crocifisso alla stupidità mediatica. E probabilmente anche alla mia.

Fino a quano da sinistra avanza un'altro blindato. Non ne posso fermarne due allo stesso tempo. Contemporaneamente il muro di biciclette, tutto accartocciato, viene spinto di lato, la folla si sposta e posso andarmene. Abbandono senza rimpianti il mio blindato, e scompaio.

lunedì 14 settembre 2009

E' morto il dio della foresta?


I larici si arrampicano sul ciglio della montagna. I loro aghi soffici sono accesi dal sole al tramonto, e rilucono come ricami luminescanti, lievemente dorati sul verde scuro dell'erica.
Poco più sotto il lago brilla del suo azzurro più intenso. Sulle sue rive dorme Sills Maria, quieto villaggio semiesclusivo per professionisti annoiati.
I pini cembri, che contendono il suolo ai larici, palmo a palmo, profumano l'aria di balsamo. Più che una foresta, è una sottile striscia di bosco, che si snoda tra la valle, già a quota milleottocento, ai prati di apleggio sopra i duemila metri sul livello del mare. Eppure questo sottile e civilizzatissimo bosco, imbrigliato in una fittissime rete di sentieri, si trasformava in immense foreste incontaminate nella fantasia dei turisti ottocenteschi. Foreste impervie e buie, estese per valli e monti, popolate da belve feroci e bizzarri eremiti. Tra questi turisti, Friedrich Nietzsche, che nel suo vagare inquieto tra boschetti rocciosi, sistematizzava il suo Zarathustra.
Passeggiando sul morbido suolo del bosco, Nietzsche immagina di essere Zarathustra che discende dai monti dopo anni di eremitaggio, e si imbatte in un vecchio santo, che vive tra i boschi componendo inni a Dio. L'eremita lo sconsiglia dal lasciare la natura incontaminata e tornare nella città. "Non recarti tra gli uomini! Rimani nella foresta! Va' piuttosto tra gli animali! Perché non vuoi tu essere come me, orso tra gli orsi, uccello tra gli uccelli?" Il Nietzsche-Zarathustra non segue il consiglio del vecchio eremita, per un motivo preciso: "è mai possibile? - si domanda - questo vecchio santo nella sua foresta non sa ancora che Dio è morto."
Il mondo è ora incerto. Dio è morto, e la foresta non è più un rifugio dalla furia degli uomini. Non è più luogo di ritorno alla purezza originaria. La foresta sarà presto sbancata per fare posto a villette in cemento, o per produrre carta su cui stampare pubblicità - Gli uomini e la foresta condividono oramai lo stesso futuro di incertezza. Il destino dell'uomo non origina più dai riti ancestrali della foresta. E' il destino della foresta ad essere appeso al filo della produzione di massa. Nessuno potra più essere orso tra gli orsi, uccello tra gli uccelli.

mercoledì 5 agosto 2009

Rugiada



Una radura nel bosco. Erba verde, ancora giovane e umida di rugiada, nell'aria calda dell'estate. Un'ape ronza a distanza, assieme a qualche mosca. Un lieve stormire di foglie, su tra i faggi, e un silenzio avvolgente, come il sole che brilla sugli steli. Ma qualcos'altro brilla. È un pullulare di lucine. Rosse, gialle, turchesi, rosa. Si accendono e si spengono al minimo movimento, basta spostare la testa di qualche centimetro. Come le luci di una minuscola città di notte. Ma è giorno pieno.
Me ne resto affascinato a guardare questi fuochi artificiali in miniatura, catturato dai colori splendenti e sempre diversi, affascinato come un bambino. Ed è proprio da bambino questo spettacolo. Ha tutto il sapore della meraviglia per quell'evento di sogno che era l'albero di natale. O per la scoperta delle luci, dei disegni e degli strani animali del bosco, fatta quando ancora si dovevano portare i pantaloni corti e le ginocchia erano sempre sbucciate.
Me ne resto lì incantato, a guardare quei puntini che si accendono e spengono.



Non è che acqua. Stupide gocce d'acqua, vapore condensatosi al freddo della notte e poggiatosi sulla prima superficie a disposizione. Eppure quanta magia che c'è in questa cosa stupida. Ci sono i broccati di argentea filigrana intarsiati dalle gocce cristalline sulle tele di ragno. Ci sono le perle di luna, poggiate dalle fate, una a una, sulle foglie di alchemilla, le cui proprietà curative sono famose per i raffreddori. Del resto, cosa aspettarsi dall'erba degli alchimisti?

sabato 23 maggio 2009

Faggeta notturna


Un vento leggero porta profumo di terra. Un cerchio di ombre attorno a un lume. Le loro voci coperte dai rumori del bosco. Sul suolo di foglie secche, un cerchio di sagome mostruosamente distorte, si estendono fino a confondersi con l’oscurità circostante. Come colonne grigiastre, i tronchi dei faggi svettano scomparendo nel nulla opaco del cielo. La foresta non è diversa dal tempio in cui i druidi celti invocavano le divinità silvestri, fino a quando le ordinate legioni romane non hanno fatto piazza pulita dei druidi e dei loro alberi sacri.
La luce si riflette su strati di foglie, che uno sull’altro, ramo su ramo. Cielo su cielo, come un caleidoscopio di universi sovrapposti.
Gli alberi tacciono. Gli alberi non camminano, non pensano, non parlano. Ma la foresta vive di loro: animali camminano, pensano, alcuni parlano, e tutti lavorano per gli alberi. Diffondono semi, spargono pollini, e ricevono in cambio cibo, riparo, acqua, ossigeno. Gli alberi, nel loro silenzio apparentemente ozioso, orchestrano i diversi strati di vita, la rete di nicchie ecologiche che pullula fra le radici e le fronde. Singoli alberi che ospitano centinaia, a volte migliaia di specie animali, un intero zoo in pochi metri, senza gabbie e senza sbarre. È un governo illuminato, forse perché non pensante, ma è sotto le sue leggi che gli umani hanno imparato il pensiero razionale, quello che nel giro di pochi millenni – in attimo – li ha portati rimuovere tutti gli alberi sul cammino della civiltà industriale.